Nel corso di uno scambio con un amico è emersa questa tematica: esiste ancora un forte pregiudizio rispetto al farsi aiutare (che si tratti di psicoterapia o simili) perché il fatto di chiedere aiuto viene letto come fallimento. Quindi in prima battuta non ha nemmeno tanto a che fare con la tipologia di aiuto che si chiede, ma con l’atto stesso del chiedere, dell’uscire da noi riconoscendo che c’è una frammentazione, uno stallo.
Se sono il primo a pensare di avere un problema, di non essere capace, di essere in una situazione troppo complessa e ormai cronica per poter cercare un diverso punto di vista, allora parto da una lettura della mia situazione che resta in chiusura e ripiegamento.
Diverso è, invece, pensare che ci possa essere una prospettiva che non ho considerato, una chiave di lettura che mi sfugge, una possibilità di uscita dal cortocircuito in cui mi sento irrimediabilmente impigliato. E, soprattutto, una relazione che mi sostenga in tutto il percorso.
Il counseling “aiuta” nel momento in cui il dialogo con l’altro sostiene ed accompagna offrendo un diverso sguardo su ciò che è già lì. Credo che il primo passo sia riconoscere che siamo tutti intrinsecamente esseri relazionali e complessi, in continuo movimento. E nel movimento non ci può essere fallimento, solo vitalità.